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Intervista agli Hooverphonic: “Suonare con un’orchestra è magico”

scritto da Alice Ziveri
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Settimana scorsa gli Hooverphonic, il gruppo belga dalle origini trip-hop amato in tutta Europa, sono tornati in Italia: l’occasione era l’uscita del loro ultimo album, Hooverphonic With Orchestra. Come dice il titolo, una raccolta dei loro maggiori successi registrati dal vivo in studio con un’orchestra di 42 elementi. Il disco contiene anche un inedito, Happiness, e una cover dei Massive Attack, Unfinished Sympathy.
Ci siamo seduti con Alex Callier e Noemie Wolfs, la nuova cantante della band, che con grande simpatia e loquacità ci hanno raccontato l’avventura di questo album e i loro punti di vista sulla musica.

Com’è stato trovarsi in uno studio a suonare con un’intera orchestra?

Fantastico. Siamo stati diverse volte in studio con un’orchestra, ma lavorando in maniera diversa. Prima registravamo tutto, poi arrivava l’orchestra e noi non dovevamo fare altro che sederci e aspettare che finissero di suonare. Questa volta, invece, abbiamo suonato tutti insieme, dal vivo. Diciotto canzoni in una sola giornata. 50 persone concentrate sulla stessa cosa, che cercano di centrare lo stesso obiettivo: registrare l’album in un giorno, dando tutto il meglio. L’energia che si crea è incredibile. Dovremmo farlo più spesso! Qualche prova e poi via, tutti in studio a registrare dal vivo. Negli anni ’60 lo facevano spesso, certo, poi l’avvento della multitrack non è più stato necessario. Ma oggi la tecnologia è così avanzata che è possibile fare delle ottime registrazioni dal vivo. Per la voce, Noemie ha fatto solo tre take. Se hai bisogno di più take, significa che la canzone non è tua, e poi inizi ad andare con il pilota automatico, non sei più coinvolto.
Alla fine delle registrazioni, ovviamente, abbiamo detto al ragazzo che siccome noi l’avevamo registrata in un giorno, lui doveva mixare tutto in massimo quattro giorni! Cinque, contando il singolo.
E ho avuto un’accesa discussione con Cedric, l’arrangiatore. Lui voleva fare una canzone al giorno, ma secondo me sarebbe stato peggio: in quattro giorni non hai tempo di perderti nei dettagli, ti devi focalizzare sull’insieme. Ed è l’insieme che ti interessa quando ascolti l’album. Farlo perfetto non significa necessariamente renderlo migliore. Inoltre, non abbiamo voluto sfruttare l’intera orchestra al massimo per ogni singola canzone: tutto è dosato sulle esigenze. Se per una canzone non ci servono gli ottoni o le percussioni, quei musicisti non suonano. Eden, per esempio, è fatta di corno francese, archi, batteria e voce: è una canzone molto intima, è stata concepita così e deve rimanere così anche avendo a disposizione un’orchestra.

Com’è nata l’idea di questo album?

E’ nato tutto dal live. Abbiamo sempre voluto suonare dal vivo con una grande orchestra. Il nostro nuovo promoter ci ha subito appoggiato: era un rischio, ma ne valeva la pena. Infatti così è stato, abbiamo fatto sei show sold out e adesso faremo una grossa arena in Belgio, in autunno. Già lo scorso ottobre abbiamo iniziato a suonare con una piccola orchestra da camera, per abituarci all’idea: abbiamo fatto qualche show con loro e ci siamo innamorati. Poi abbiamo fatto due show, già programmati da tempo, con la nostra solita formazione. Ed è stato stranissimo. “Dove sono gli archi?!” ci chiedevamo, “dov’è l’orchestra?”.
E’ la nostra seconda natura, quello che siamo. Siamo sempre stati una band ispirata da un sentimento decadente, da vecchio film, dagli anni ’60. Suonare sul palco con degli archi ricrea l’atmosfera di quei giorni. Ed è magico.

Come avete scelto le canzoni da inserire?

Non volevamo cambiare la setlist che abbiamo portato in giro per due anni con The Night Before. Per noi è una setlist molto importante, è stata creata proprio con i concerti, vedendo piano piano quello che funzionava. Ed era proprio quella che volevamo nell’album. Ci sono, naturalmente, pezzi che non puoi non suonare. Se vado a un concerto dei Radiohead e non suonano Creep o Fake Plastic Trees, mi arrabbio, sono deluso. E’ facile per una band assumere un atteggiamento un po’ arrogante e dire “beh, non mi piace suonare quella canzone, mi annoia, l’ho già suonata centomila volte”. Ma non funziona così: si suona per il pubblico, che ha pagato fior fiori di soldi per essere lì. Per noi la setlist è sempre una combinazione di quello che ci piace e quello che sappiamo che il pubblico si aspetta, come Anger Never Dies o Mad About You. Tu puoi anche avere suonato una canzone per trent’anni, ma lo spettatore viene una volta sola, giustamente vuole sentire certe hit. Bisogna sempre pensare ai fan, è grazie a loro che facciamo quello che facciamo.

Noemie, a distanza di un anno e mezzo dall’ingresso nella band, come ti senti?

Noemie: La cosa più strana è stata sentirsi in radio in Italia, la scorsa estate. E degli amici che vivono in Toscana mi dicevano che la canzone era sempre alla radio. Sono contentissima di essere saltata su questo treno… è stato impegnativo, ma come dice spesso non sono una che pensa troppo, agisco e basta.
Alex: Un po’ come quando canta. Ed è proprio quello che cercavamo: qualcuno che cantasse le canzoni spontaneamente, a modo suo, senza cercare di imitare quello che abbiamo fatto in passato.